Ognuna a modo suo, Telecom Italia (ora Tim) e Generali hanno
cadenzato la storia della Borsa italiana degli ultimi 30 anni,
altalenando bruschi cambiamenti di azionariato di controllo o di
vertici aziendali. E promettono di farlo ancora, a giudicare dalle
contese in atto nei rispettivi consigli d'amministrazione e tra
soci di riferimento. Tenzoni destinate a soluzioni gattopardesche,
in cui si cambia tutto affinché non cambi nulla, o invece occasioni
per rivedere davvero la governance dei grandi gruppi italiani?
Milano Finanza lo ha chiesto a Roger Abravanel, decano della
consulenza strategica e saggista economico, oltre che consigliere
d'amministrazione indipendente in numerose società quotate
all'estero.
Domanda. Tim e Generali sono da sempre società protagoniste del
capitalismo italiano e al loro interno stanno vivendo due contese
che coinvolgono consiglieri e azionisti. Nel suo ultimo saggio,
«Aristocrazia 2.0, la nuova élite per salvare il Paese», lei ha
raccontato la loro storia, da cui sembra che quanto sta avvenendo
fosse inevitabile.
Risposta. La loro storia è emblematica nel rappresentare quanto
il capitalismo italiano sia stato responsabile della mancanza di
grandissime imprese nello scacchiere della competizione globale,
rivelandosi così il peggior nemico della meritocrazia e dello
sviluppo economico. Ho già ricordato in un'intervista a Milano
Finanza come sono state privatizzate nel 1997 Telecom Italia e la
spagnola Telefonica e come - da allora - la capitalizzazione di Tim
sia passata dal doppio alla metà di quella di Telefonica. Gli
azionisti di riferimento che si sono succeduti l'avevano indebitata
come i peggiori scalatori di Wall Street, con un'impressionante
sequenza di dieci presidenti e dieci amministratori delegati,
contando l'ultimo di questi giorni, Pietro Labriola, che ha il
pregio di essere un manager che proviene da una lunga storia
manageriale interna. Nel mio saggio avevo anche raccontato una
storia simile per Generali.
D. Vale la pena ricordarla.
R. Il gruppo nel 1990 era la seconda compagnia assicurativa
europea e valeva in borsa il 70% del colosso numero uno in Europa.
A distanza di 32 anni, la sua capitalizzazione vale un terzo di
Allianz ed è la sesta d'Europa. Oggi il gruppo triestino sconta
scelte strategiche sbagliate del secolo scorso, che lo lasciano
molto più dipendente dal mercato italiano di quanto Allianz dipenda
da quello tedesco, anche in conseguenza dell'acquisizione di
Ina-Assitalia, e con una debole presenza nel settore dell'asset
management, anche per il mancato acquisto di Pioneer, a cui si
aggiunge la sfida presente in tutte le assicurazioni del mondo, che
è la profonda trasformazione digitale. Negli ultimi anni parte del
gap con i leader è stato recuperato, ma resta comunque molto
grande.
D. Oggi c'è in entrambe le aziende un risveglio d'interesse per
il loro controllo. In Telecom, Vivendi e Kkr sono su fronti
contrapposti, in Generali c'è Mediobanca apertamente sfidata da due
soci pesanti come Caltagirone e Del Vecchio. Lei siede nei board di
molte società quotate al Nyse, Lse, Nasdaq, al Tav e nella sua vita
di amministratore indipendente è stato scalato un paio di volte, un
esperienza non comune. Secondo lei come finirà?
R. Non azzardo previsioni, ma di una cosa sono profondamente
convinto: a prescindere dall'esito, contese del genere potrebbero
rivelarsi molto positive per le due imprese e per chi ci
lavora.
D. Si spieghi meglio.
R. Nel mondo anglosassone gli hostile takeover bids sono esplosi
negli anni '80, vi ricordate il raider Gordon Gekko del film Wall
Street? Era del 1987, e nel 1988 in Usa vi furono ben 160
unsolicitated takeover bids, offerte ostili d'acquisto. Poi, verso
la fine del secolo, il fenomeno è diminuito e sono diventate rare
anche nel nuovo secolo. Questo perché i prezzi in borsa erano
saliti troppo e perché le difese legali erano molto aumentate, con
una compliance regolatoria che permise le cosiddette poison pills
per evitare scalate troppo spregiudicate. Ancora oggi è così e gli
scalatori come Carl Icahn, che spingevano per controllare tutta
l'azienda per poi venderla a pezzi, sono stati sostituiti dai
cosiddetti fondi attivisti, che hanno approcci più tattici,
prendendo posizioni e negoziando aggressivamente qualche membro del
consiglio per poi realizzare la loro visione strategica. Con il
post Covid sta ripartendo anche l'attività di questi fondi: si
concentrano sulle società non tornate alle quotazioni di borsa
pre-pandemia, che sono ancora tante.
D. Perché il ruolo di questi fondi reca vantaggi alla aziende
che mettono nel mirino?
R. Anche in passato gli scalatori non sempre erano come Gordon
Gekko che spolpava la azienda, ma spesso la rafforzavano. Lo stesso
fa il fondo attivista, che ha una sua idea di come rafforzare
strategia, leadership e governance d'impresa. Chi si difende
finisce a sua volta per utilizzare l'attacco esterno anche come uno
stimolo per migliorarsi. In un certo senso, difendendosi, si scala
da sola, spesso ricorrendo a idee non troppo diverse dallo
scalatore. Alla fine, ho potuto verificare che questi approcci
hanno spesso il beneficio di dare una mossa al consiglio e
all'azionista di controllo, con vantaggi per tutti. Anche per lo
stesso fondo attivista, perché il titolo sale. Il fondo attivista
utilizza il board e il suo presidente come strumento essenziale per
cambiare l'azienda, perché ora - volendo - il cda conta molto e la
governance fa la differenza rispetto a prima.
D. Può succedere anche in Tim e Generali?
R. Mi sembra stia già succedendo in Tim, in cui Kkr agisce più
come una scalatore non ostile che come fondo attivista. La proposta
d'opa di Kkr è in corso di valutazione da parte del consiglio, ma
nell'attesa lo stesso cda e gli attuali soci hanno deciso, in un
certo senso, di auto-scalarsi: è cambiato il top management e il
cda ha dato chiaro mandato di portare avanti lo scorporo delle rete
fissa, con l'obbiettivo di creare valore, idea alla base della
strategia di Kkr. Un chiaro esempio di come un potenziale nuovo
azionista possa innescare un meccanismo virtuoso. Ovviamente si è
solo agli inizi, ma l'esempio è chiaro.
D. E in Generali?
R. Qui l'approccio è diverso, perché non si tratta di un'opa ma
di una lotta tra gli attuali azionisti che combattono per il
controllo attraverso liste di consiglieri. Ma anche qui il tema
dovrebbe vertere sulla creazione di valore per tutti gli azionisti,
definendo nuove strategie e scegliendo il capo azienda più
appropriato a realizzarle.
D. Lei prima parlava di fondi attivisti, ma nel caso delle
Generali sul piede di guerra sono due imprenditori individuali,
abituati ad avere un ampio consenso, per non dire l'unanimità,
all'interno delle proprie governance aziendali. Siamo sicuri che la
loro storia sia altrettanto efficace per governare una public
company centenaria come quella delle Generali?
R. Così come la Mediobanca di oggi mi sembra diversa da quella
del passato, che era un vero salotto, devo sperare che anche due
imprenditori eccellenti che non assomigliano certo agli hedge fund
di Wall Street e Londra comprendano come il contesto sia diverso da
quello tradizionale del capitalismo famigliare italiano. La chiave
sarà, in entrambe le fazioni, quanto la governance dei consigli si
sostituirà ai salotti per realizzare strategie e leadership negli
interessi di tutti. Sarà veramente chiave l'indipendenza di tutti
consiglieri.
D. E come si raggiunge?
R. L'autorevolezza e il curriculum dei consiglieri di
amministrazione attuali e potenziali non si discutono e il rispetto
delle regole di compliance formale è garantito, ma ciò che conta è
il come arriveranno alla decisione più giusta possibile,
indipendentemente dal desiderio di essere fedeli al loro dante
causa. Se i processi in corso, che vedono il coinvolgimento di
blasonati consulenti e banchieri d'affari, saranno puramente
formali e alla fine la battaglia sarà soprattutto di tipo giuridico
e le votazioni unicamente funzione delle fazioni a cui si
appartiene, non cambierà granché. Se invece la decisione sarà presa
in base a dibattiti profondi e informati sui business e sulla
leadership da parte dei singoli consiglieri che utilizzano i
consulenti per informarsi e arrivare a un punto di vista
indipendente da quello dell'azionista di riferimento e del
management, allora forse saremo sulla buona strada. In particolare,
sarà cruciale il ruolo del presidente del Cda, che deve allineare
tutti sulla nuova strategia e sul giusto profilo del management,
mentre purtroppo oggi viene spesso limitato a figura di mera
rappresentanza.
D. Per la sua esperienza, qual è il profilo ideale di un
presidente di Cda?
R. Ho fatto parte di consigli internazionali con ottimi e
pessimi presidenti e credo che il profilo ideale sia quella di un
leader capace di orchestrare la trasformazione in modo discreto e
umile, utilizzando al meglio e singolarmente i suoi consiglieri.
Qualcuno capace d'incidere profondamente senza apparire.
Esattamente il contrario del Presidente di campanello. Ma a
prescindere da ciò, quello che voglio dire e che Tim e Generali
potrebbero rivelarsi dei veri cantieri di una nuova governance
delle imprese italiane, che da anni è lontana dall'ottimale perché
così l'ha voluta il capitalismo nostrano. In pochi da noi ritengono
che i consigli servano veramente ad aggiungere valore alle aziende.
In caso contrario, si sarà persa una grande occasione.
D. Questi semi possono crescere anche nelle medie aziende
italiane quotate?
R. Su questo aspetto, purtroppo non sono particolarmente
ottimista. Nel caso delle imprese famigliari italiane, spesso gli
azionisti mantengono il controllo anche se non se lo meritano. Non
esiste un mercato per la proprietà delle aziende famigliari
italiane, perché non sono de facto contendibili. Il che
contribuisce alla carenza di un vera cultura di governance. Si
ritiene che contino solo le decisioni degli azionisti forti e che i
cda servano a poco per rafforzare la strategia e scegliere il
management. Lì i consigli sono utilizzati soprattutto per la
compliance, ma nessuno oggi crede che possano avere i processi e le
persone in grado fattivamente di aggiungere valore alle scelte sul
futuro dell'azienda. Ecco perché spero che Telecom e Generali,
grazie a consigli d'amministrazione eccellenti, riescano a
rilanciare le rispettive aziende, incitando anche le nuove
generazioni del capitalismo famigliare italiano a orientarsi verso
una governance più in linea con le esigenze di questo nuovo
secolo.
fch
(END) Dow Jones Newswires
January 31, 2022 02:58 ET (07:58 GMT)
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